C’è una medaglia d’oro che l’Italia si è guadagnata con costanza e abnegazione: quella per la peggior performance salariale del G20. Non è un premio ambito, ma tant’è: secondo l’ultimo Rapporto mondiale sui salari 2025-26 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), dal 2008 ad oggi il potere d’acquisto dei lavoratori italiani è crollato dell’8,7%. Sì, avete letto bene. Mentre in Germania è cresciuto del 15% e in Corea del Sud del 20%, noi ci siamo ritrovati più poveri di prima, con stipendi falcidiati dall’inflazione e da una politica economica che ha ignorato il lavoro come leva strategica.
Un paese che lavora tanto e guadagna poco
L’Italia non è un paese che non lavora. È un paese che lavora male, in un contesto che premia le rendite, protegge gli inefficaci e penalizza chi produce. Le retribuzioni non solo non sono aumentate: in molti settori, sono ferme da decenni. La produttività, tra il 1999 e il 2024, è addirittura calata del 3%, mentre nei Paesi ad alto reddito è aumentata del 30%. Un’ecatombe economica mascherata da “flessibilità”.
Nel frattempo, altri indicatori non fanno che peggiorare: i lavoratori migranti guadagnano in media il 26,3% in meno rispetto agli italiani, e anche se il gender pay gap in Italia è relativamente basso (9,3%), resta comunque un sintomo di un sistema stagnante e poco meritocratico.
La politica salariale del “faremo qualcosa”
Davanti a questo sfacelo, la politica italiana si muove con la leggerezza di un elefante in cristalleria. Si parla, si promette, si rinvia. Il salario minimo? Ancora una chimera. La contrattazione collettiva? Sempre più debole. Le imprese, spesso PMI poco capitalizzate, non hanno né incentivi né pressioni per premiare il merito o investire in innovazione. In sintesi: il lavoratore italiano è la mucca da mungere e mai da nutrire.
Una soluzione concreta: legare salari e produttività su base territoriale
Se vogliamo uscire da questo pantano, serve una rivoluzione contrattuale. Una proposta? Introdurre un meccanismo di indicizzazione territoriale dei salari alla produttività, gestito da un’agenzia indipendente. Le aziende che aumentano la produttività dovrebbero essere incentivate fiscalmente a trasferire parte del guadagno ai dipendenti. Un “patto di restituzione” tra capitale e lavoro. A ciò si dovrebbe affiancare un salario minimo legale, come in quasi tutta Europa, per togliere terreno al lavoro povero e sottopagato.
In parole povere: se non si alzano i salari, si ammazza il mercato interno, si scoraggiano i giovani, si alimenta l’emigrazione dei più capaci. E, alla lunga, si condanna il paese alla marginalità economica.
Il lavoro non è un costo. È un investimento. E finché non la smetteremo di trattarlo come una variabile da comprimere, continueremo a essere il fanalino di coda del mondo sviluppato. Con buona pace delle statistiche.
Fonti:
• ILO – World Employment and Social Outlook 2025-26
• Corriere della Sera – Salari reali, nessuno peggio dell’Italia
• ANSA – Salari reali giù dell’8,7% in Italia
• TG24 Sky – I salari italiani nel rapporto ILO
• Il Tirreno – L’Italia fanalino di coda dei salari dal 2008
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